LA BOTTEGA DELLE MASCHERE

2017

COSÌ È, SE VI PARE – PENSACI, GIACOMINO!  di Luigi Pirandello
(Pirandelliana – Roma – Giardino della Basilica di S.Alessio all’Aventino, 6 luglio – 6 agosto)

TEATRO DI NATALE – XI EDIZIONE
(Roma – Cripta della Basilica di S.Alessio all’Aventino, 13-15 dicembre)


 

PIRANDELLIANA 2017 (XXI Edizione)
dal 6 luglio al 6 agosto

COSI’ E’ (SE VI PARE)
(in scena il martedì, il giovedì e il sabato ovvero il 6, 8, 11, 13, 15, 18, 20, 22, 25, 27 e 29 luglio – il 1, 3 e 5 agosto)

PENSACI, GIACOMINO!
(in scena il mercoledì, il venerdì e la domenica ovvero il 7, 9, 12, 14, 16, 19, 21, 23, 26, 28 e 30 luglio – il 2, 4, e 6 agosto)

Regia di Marcello Amici

Giardino della Basilica dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino – Piazza S. Alessio 23, Roma


 

Dal 1997 (102.472 gli spettatori!) – organizzata dalla Compagnia Teatrale La bottega delle maschere diretta da Marcello Amici – Pirandelliana è una delle rassegne di teatro più importanti dell’Estate Romana. Iniziata nel 1997 nel Teatro Romano di Ostia Antica, dal 1999 la Rassegna ha proseguito la sua storia nel Giardino della Basilica di Sant’Alessio, uno degli spazi più intensi dell’Aventino che si affaccia come un solenne balcone sulla Città. È un luogo antico e austero, silenzioso, intenso, il più elegante dell’Estate Romana. L’aria che si respira nel Teatro della Bottega non è raddensata, austera, severa, ma è ironica tragedia e commedia tragica. È teatro pirandelliano che nella sua XXI Edizione affronta il problema della solitudine esistenziale che opprime e condiziona.

La rassegna si svolgerà dal 6 luglio al 6 agosto 2017 e conterrà:

– Così è (se vi pare) (in scena il martedì, il giovedì, il sabato);

– Pensaci, Giacomino! (in scena il mercoledì, il venerdì, la domenica).


 

COSÍ È (SE VI PARE)
fu rappresentata il 18 giugno 1917 al Teatro Olimpia di Milano

Parabola, l’unica che mi sia veramente cara, fu definita da Pirandello la vicenda drammatica tratta dalla sua novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero, proprio per l’insegnamento morale che essa suggerisce: la storia dell’una (la signora Frola) che dice viva la propria figlia creduta morta dal genero e a lui ridata in moglie, ma come fosse un’altra donna, è altrettanto vera quanto la storia dell’altro (il signor Ponza) che afferma sia pazza la suocera, la quale ritiene viva la figlia, mentre è morta da quattro anni e quella che ha con sé è la sua seconda moglie.
La stanza della tortura, stavolta, è un salotto provinciale col suo brulicare di conformisti impiegati di prefettura e di signore irragionevoli e benpensanti. Tutti si muovono come marionette e si dilaniano in una innaturale ricerca della verità. Si fanno indagini, ma non esiste né il certificato di morte della figlia della signora Frola, né tantomeno quello di un secondo matrimonio del Ponza. La situazione potrebbe essere chiarita solo dalla diretta interessata: la signora Ponza. Chiamata, la donna rende la situazione ancora più complicata, dichiarando di essere sia la moglie del Ponza, sia la figlia della signora Frola.
– Ah, no, per sé, lei, signora: sarà l’una o l’altra!
– Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede.
È una parabola. Commedia limite in ogni senso, delle opere di Pirandello è la più meccanica e crudele, perché la più nitida e coerente, la meno persuasiva e la più sincera. Non è gran filosofia affermare che siamo come gli altri ci vedono, ma non per questo si può stare quieti a pensare che c’è uno che si affanna a persuadere gli altri che noi siamo come ci vede lui. È un capolavoro non per il dettato filosofico, ma perché anticipa, meglio, forse, di Sei personaggi, il nuovo teatro.
Bianco e nero e un pizzico di viola! Tutti uguali: grigie le signore, neri gli uomini, per un giuoco tra marionette futuriste e personaggi antichi. La verità, trasparente sul finale perché illuminata in controluce dall’uomo del Kaos, sta in casa di un limbo che ospita attori e personaggi.
E’ un palcoscenico totale, un arsenale delle apparizioni in cui si dipanano i momenti intensi di un Novecento teatrale alla base della drammaturgia contemporanea. In uno spazio elementare è collocato il racconto teatrale. Si presenta in viola colui che rasserena il pubblico. È un supremo inquisitore che mette sotto scacco sia gli attori, sia gli spettatori anche dopo l’uscita dal teatro, abile nel togliere ogni sostegno al giudizio, per modo che non si possa più distinguere tra fantasma e realtà. Il problema della solitudine umana, dell’incomunicabilità, della verità, quella da ciascuno di noi creduta in un dato momento e in determinate circostanze, la liquidazione del principio di identità, l’angoscia dell’essere sempre differenti da sé stessi, sono disseminate ovunque. La messinscena offre lo spunto per qualche risoluzione: nelle linee futuriste dei costumi, nelle note di un pianoforte come in quelle di una musica primordiale e nella scenografia disegnata per accogliere una stanza dove si inizia a giuocare con il guscio dell’uovo. Del più violento paradigma teatrale che sia mai stato ideato sul tipico contegno borghese, apparentemente legato ad una insana e farneticante curiosità perbenista, non sono sfuggite né la molla che scatena il dramma, né quella sorda, repressa, esistenziale strana passione.
La regia, perciò, si è collocata tra i personaggi e il dramma che urge in loro, ne ha esposto il delirante narcisismo logico, ha scomposto volumi e colori, ha risolto il giuoco tra le maglie di un cubismo e la suggestione delle gelide geometrie di un teorema, ha giustificato la lucidità implacabile dei contenuti con una scenografia torturante. Stilizzati, espressione di certi anni, i costumi.
In tutta la messinscena l’umorismo è stato assunto come strumento critico ed elemento aggregante, attraverso il quale i misteri dell’anima e lo struggente teorema del testo si ricollegano per vie sotterranee al siciliano Gorgia da Leontini, e preannunciano le inquietanti suggestioni del dottor Freud.


 

PENSACI, GIACOMINO!
fu pubblicata il 1° aprile e il 1° giugno 1917 nella rivista “Noi e il Mondo”

Agostino Toti, anziano professore di ginnasio, prende moglie per far dispetto al Governo che lo ha tenuto per trentaquattro anni a stecchetto con un misero stipendio. Sposa la giovane Lillina, cui assicura di fare da padre e nient’altro, messa incinta dal suo ex alunno Giacomino Delisi, per obbligare il Governo a continuarle a pagare la pensione, per almeno altri cinquant’anni dopo la sua morte. La moglie giovane potrà continuare a vedere il suo Giacomino. Il professor Toti, però, non deve saperlo, cioè lo sa, ma dev’essere come se non lo sapesse! 
È un tradimento? Agostino Toti l’ha messo nel conto. Le corna gli assicureranno la pace in famiglia. Del resto, il tradito non sarà lui che alla giovane moglie può fare solo da padre, ma il marito che, in realtà, lui non è, non vuole e non può essere. La gente ride e si scandalizza. Giacomino non sopporta più quella situazione paradossale di menage a trois, per cui abbandona Lillina e il piccino e si fidanza per tornare nell’ordine e mettere su casa propria. Il professor Toti, prima con le più tenere preghiere, poi con serie minacce – Pensaci, Giacomino! – l’obbliga a tornare da Lillina e dal suo bambino.
Tutta la commedia è una costruzione di una logica assurda, folle, irrazionale, ma in sé coerente, armoniosa e razionalissima.
È il trionfo della spontaneità, della follia, dell’irrazionale. Irrazionale è tale solo in confronto a ciò che si è soliti chiamare ragione. In sé, è ragione, è logica anch’esso.
Ciò che si chiama ragione non è una delle tante forme, delle tante ragioni possibili, che ha, certo, diritto di vivere e di affermarsi, ma ha torto, quando vuole negare la possibilità e il diritto di altre forme, di altre ragioni?
La logica pirandelliana tocca il suo culmine in questo straordinario lavoro in cui si vede un marito forzare l’amante della moglie a tornare alla donna abbandonata e, quel che è più, ad avere ragione di agire così. Mai certa relatività delle costruzioni umane, che di fronte alla ragione e al comune diritto appare, e deve apparire, assurdità e follia, era stata sostenuta con violenza più acerba, più aperta e più lucidamente logica dall’Autore di Maschere nude.
La regia ha colto, lavorando alla siciliana, i tratti umoristici della commedia e li ha estesi a quelli ombrosi, sghembi e ironici scovati tra le pieghe della messinscena. È un Pirandello fatto di apparente genuinità popolaresca, ma è sempre il raffinato, ironico e amletico scrittore pieno di rimandi e di sottili allusioni. Il sipario si apre su una scena futurista che rende subito evidente lo strano personaggio che emerge dalle atmosfere irrazionali dell’uomo di Girgenti, pronto a mettere in discussione, a inquadrare gli squilibri e quell’intricato mondo di passioni e doveri, di sostanza ed apparenza, che è la famiglia “allargata” in un interno. Commedia morale forse, umoristica e grottesca certo, con un personaggio che affronta l’ipocrisia del mondo senza la maschera di un ruolo sociale, quello di marito, un ruolo di cui si è liberato subito, dichiarando di non volerlo essere.
Ma siamo certi che, dando un’anima a una bislacca marionetta, non si superi il limite, proprio di quel paradosso al quale ci si vuole sottrarre? In altri termini, l’amarezza della commedia, e quindi della sua umanità, non deriva forse dal contrasto tra uomini e burattini? Ma s’è mai visto un più tragico fantoccio del professor Agostino Toti, di questo dolce apostolo dell’assurdo, così liricamente pervaso della sete di stravagante carità?