1995

PEER GYNT di Enrik Ibsen
(Roma – Teatro Le Salette, 21 febbraio – 12 marzo)


 

NOTE DI REGIA

Tutti! Critici, uomini di teatro e to stesso Ibsen, mi avevano parlato di Peer Gynt, esclusivamente, come di una figura semimitica appartenente ai popoli nordici. Il mio adattamento, invece, e la conseguente regia che subito vi ho tessuto sotto, hanno, senza indugio, tinto di mediterraneità tutta la vicenda: anche la renna, magari in un unico esemplare, per me, era cresciuta su quei monti dell’Aspromonte dirupati sul mare.
Ibsen compose il Peer Gynt nel 1867 a Sorrento. Ricordando quel periodo scrisse: Il suolo agisce profondamente sulle forme nelle quali si esprime la forza dell’immaginazione.
La prima rappresentazione, con le fortunate musiche di Grieg, avvenne al Christiania Theater nel 1876. Da allora, l’opera, nonostante le sue smisurate proporzioni, ha goduto sempre dell’attenzione dei teatranti. Questo il sunto di una parte dei miei studi preparatori alla messa in scena.
Durante la riduzione e l’adattamento dell’opera, dai fogli dattiloscritti del bigino delle mie graziose traduttrici, la smisurata proporzione del testo si era annullata: degli oltre cinquanta personaggi descritti dall’autore me ne rimaneva un pugno.

Il vero Ibsen – ha sottolineato Slataper – non è poeta da epopee goethiane, il poema si riduce allo schema, ricchissimo, del sue eroe. In sostanza, in Gynt vi sono tre creature: egli, Solveig e Aase. Io ho aggiunto le maschere surrealistiche che gli ruotano attorno nelle sue avventure esotiche, elaborate dalla mia fantasia che le ha ricercate nei ricordi.
Terza considerazione: il finale non si è ricomposto in quella che Valency ha definito una Pietà su cui si leva il sole!Ibsen aveva già guastato l’armonia romantica, rimandando all’ultimo crocevia. Ho lasciato tutto in sospensione e rinviato al giudizio del pubblico la mia tesi che si dilata da Kierkegaard a Grimm, in direzione di Freud e Joyce.
Inoltre, liberi, la mia phantasia ed io, fuori dalle antiche stanze della tortura, non più impastoiati nelle unità aristoteliche, abbiamo voluto visitare la mirifica terra di nessuno che divide il teatro dal cinema e lì fare i vagabondi, i bugiardi del boschi e delle nuvole, costruire la messinscena con un fiume di immagini, una cascata di metafore visive, un ventaglio di lampi.
Con le mie note, infine, rispondo per iscritto a tutte le interrogazioni speculari cui e stata sottoposta la mia regia:Perché Peer Gynt?
Perché non è soltanto la storia del ragazzone dai capelli color birra, millantatore, cantastorie, fantastico; e nemmeno il Don Giovanni impenitente, il Narciso incorreggibile che si appaga solo del proprio egoismo; non è Ulisse, tanto è vero che ho fatto dire al leggendario viaggiatore in casa, al sognatore di trasgressioni che non riesce a compiere: … non ricordo più se tutte quelle cose sono vere, se quei viaggi io li ho fatti davvero, o li ho sognati, mentre inseguivo le mie nuvole …
Non è Faust né Mefistofele, non è Candido né Zarathustra, il mitomane che di tutto vuol fare un simbolo, il cinico giocoliere la cui anarchia è piena di impotenza e la cui potenza è tutta velleità. Peer Gynt è, soprattutto, la storia di eroe del quale noi conosciamo le gesta molto da vicino. È il resoconto di uno di quegli ultimi eroi borghesi. Peer Gynt rappresenta il pieno abbandono all’istinto, al sogno e alla fantasia, in una totale dispersione della personalità. È il simbolo della pretenziosità umana. È un testo fondamentale nella storia del teatro moderno, dotato della stessa carica dirompente che hanno avuto nel romanzo L’uomo senza qualità di Musil o l’Ulisse di Joyce.
La bottega delle maschere con il Peer Gynt continua a fare il suo teatro giovane che non ha paura della ricerca, seguita ad affrontare il grande repertorio sottoponendolo, come sempre, al vaglio della regia che, dopo averlo sfrondato da tutta la sua farraginosa sovrastruttura, l’ha colto nella sua essenza più intima e genuina e l’ha rifuso nelle parti che il cittadino del mondo non aveva in linea col pubblico d’oggi.
Peer è un sognatore di volpina duttilità, un gagliardo fannullone, un millantatore sensuale, un mitico teppista: è l’eroe del trionfo della fantasia irrefrenabile e amorale, è la voglia di assoluto di un Don Chisciotte che è un po’ Faust. Nel presentarlo, la regia si è lasciata alle spalle il teatro naturalistico e si è addentrata in quelle lande sceniche esplorate dal teatro moderno: da Strindberg a Wedekind, da Jarry a Pirandello, da Pessoa a Federico Fellini. Un teatro semiotico, in cui gli elementi scenici sono usati come segni, sono forzati a significare molto di più del loro senso naturale, diventando elementi congiunti o opposti ad altri, capaci di “recitare” quanto gli attori. La messinscena vuole essere una grande metafora del teatro, di quell’impasto di follia, imbroglio consapevole, destrutturazione della realtà, ironia, ciarlataneria, trucco esplicito e magia che è il teatro secondo La bottega delle maschere.


 

GLI ATTORI
Marcello Amici
Monica Massaro
Giusy Spighetti
Massimiliano Zino
Livia Lucheroni
Marco Vincenzetti
Francesca Romana Cerri
Marco Bellizzi
Luca Turco
Elisabetta Cianchini
Ginevra Sciamannetti